Pulire una soffitta è sempre una cosa affascinante... se non siamo noi a pulirla, e se riceviamo in dono uno scatolone pieno di tesori dimenticati!
Ecco, io ho avuto la fortuna di ricevere scatoloni pieni di… libri!
Con la meraviglia negli occhi, come i bambini a
Natale quando scartano i regali, ho guardato uno dopo l’altro tutti i libri che
lo scatolone conteneva. Tanto per citarne qualcuno: le short stories di Kafta, "The Bridget Jones’s Diary", "Sushi for Beginners" di Marian Keyes… autrice molto
ironica i cui libri si leggono come si beve una bevanda fresca d’estate…
Ce n'è stato uno in particolare, però, a catturare la mia attenzione (un
po’ per passione, un po’ per il piacere suscitato dal ricordo delle lezioni
della mitica professoressa di glottologia e linguistica... la prof.
Ciancaglini): “Mother Tongue” ovvero madre lingua di Bill Bryson.
Con un
linguaggio semplice, ma preciso e accurato, Bill Bryson introduce il discorso
sulla complessità dell’inglese e sul perché questa lingua sia da considerare
diversa da tutte le altre, con uno stile così divertente e ironico che è
veramente un piacere immergersi nella lettura dei suoi libri. Bill (lo chiamo
Bill perché la lettura crea un rapporto autore-lettore molto intimo e
surreale), americano, è conosciuto più
come scrittore che come giornalista. Il suo stile, ironico e schietto, non è
mai noioso. Basta guardare la frase di apertura del
libro: More than 300 million people in the world speak English and the
rest, it sometimes seems, try to ("più di 300 milioni di persone nel mondo parlano
inglese e il resto, a volte, sembra provarci").
Lo scopo di questo post è quello di condividere
con voi un paio di sue battute e aneddoti, come se lo stessimo leggendo insieme
in un circolo letterario davanti a una buona tazza di tè.
… Le difficoltà dell’inglese sono tali che
nemmeno i madrelingua riescono sempre a comunicare in modo efficace, cosa che
quasi ogni inglese impara nel suo primo giorno in America. Nel bene e nel male,
l’inglese è diventato la lingua più globalizzata al mondo, una lingua franca da
usare in quasi tutti i campi, da quello degli affari a quello scientifico,
dall’istruzione alla pop music e così via. Quando nel 1977 quattro nazioni
europee (Francia, Italia, Germania e Svizzera) decisero di formare una joint
venture relativa alla produzione di camion, si scelse l’inglese come ‘working
language’ perché – osservò ironicamente uno dei fondatori – mette tutti
sullo stesso piano di svantaggio…
Persino la Francia – continua Bill – la nazione
linguisticamente più conservativa al mondo ha da tempo perso la sua guerra
contro l’invasione dell’inglese. Già nel 1989, l’istituto Pasteur annunciò che
la propria rinomata rivista medica sarebbe stata pubblicata, da lì in avanti,
solo in inglese… visto che pochissime persone la leggevano in francese!
Si dice spesso che è la ricchezza del suo lessico
a differenziare l’inglese dalle altre lingue, infatti la vasta gamma di
sinonimi disponibili permette una miriade di sfumature diverse che spesso i
non-madrelingua non riescono a cogliere. Per esempio la differenza tra house
e home (il primo termine indica l’edificio mentre il secondo indica la
dimora, il focolare domestico… la ‘casa dolce casa' per intenderci), o tra I
wrote e I’ve written (e qui prometto che a breve pubblicherò un post
dedicato esclusivamente alla contrapposizione tra simple past e present
perfect. In due parole, questo è uno dei maggiori ostacoli che un italiano
si trova di fronte nel suo percorso di apprendimento. Infatti, non esiste una
corrispondenza con i nostri tempi passati: in inglese il simple past
indica un’azione finita, che non ha più niente a che fare con il presente…
anche se quest’azione è avvenuta ieri! Al contrario, il present perfect
indica un’azione iniziata nel passato, ma tutt’ora in corso. Esempio: tra John
broke his leg e John has broken his leg, non c’è alcuna differenza
nella resa in italiano; entrambe si traducono con John si è rotto una gamba.
La differenza sostanziale sta nel significato. Essendo ‘broke’ un verbo
al simple past, la frase indica che sì, John si è rotto una gamba, ma
ora sta bene… il gesso non ce l’ha più! Nella seconda invece l’uso del present
perfect indica che l’azione è ancora in corso e quindi la gamba di John è
ancora rotta!)
D’altro canto, ci sono anche cose che l’inglese
non ha, come la differenza tra conoscere e sapere. Per esempio noi italiani
abbiamo una parola che indica l’alone lasciato da un bicchiere bagnato sul
tavolo: il culaccino… che – modestamente parlando – gli inglesi non hanno. O
gli scozzesi: in gaelico esiste una parola che indica il solletichìo sul labbro
superiore un attimo prima di bere un sorso di whisky: è sgriob.
Poi, naturalmente, ogni lingua ha una parte che –
per esigenze pratiche – è più espressiva di altre. Gli eschimesi hanno diversi modi di definire la neve (neve croccante, neve soffice, neve fresca, neve
vecchia…) ma nessuno che definisca la neve ‘semplice’… e poi ci siamo noi
italiani. Dice Bill: gli italiani hanno più di 500 nomi per definire i
‘macaroni’; alcuni di questi, quando tradotti, tolgono perfino l’appetito (ma soltanto a loro, a noi certamente no!) come gli strozzapreti (che inglese sono i
preti strangolati ‘strangled priests’) o i vermicelli (in inglese
piccoli vermi ‘little worms’)… certo che allora… che dire degli HOT DOGS?
Spero di aver stuzzicato la vostra curiosità e
stimolato la voglia di imparare l’inglese, quanto meno per godersi la lettura
di libri simpatici e divertenti come questo.
See you soon guys!
Vale
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